Il mio ricordo di John Giblin

di Francesco Pecci

“Julio…Julio”! questa era la piacevole canzonatura che mi arrivava dalla cucina, da John, mentre preparava la colazione per noi due al mattino presto. Mentre io cantavo sotto la doccia a squarciagola le canzoni del famoso iberico con improbabili vibrati, John si divertiva un mondo a prendermi (bonariamente) in giro. Sto parlando di John Giblin la cui vita si intrecciò con la mia in poche e brevi circostanze ma nelle quali si creò comunque un legame denso di quell’empatia che solo il grande romanzo della vita sa scrivere. Mi venne presentato da sua sorella Irene, una splendida ragazza scozzese di oltre mt. 1,70, dai lunghi capelli neri e due occhi grandi dai riflessi verdi-giada che frequentavo e che lavorava a Ischia, come capogruppo per l’Hapag Lloyd. A quel tempo anche io lavoravo a Ischia come direttore sanitario di uno dei complessi termali più prestigiosi dell’isola.

Un giorno raggiante mi disse: “per il fine settimana finalmente rivedrò mio fratello John, verrà a trovarmi a Ischia”. Alto, un sorriso smagliante e coinvolgente e anche lui con quella luce negli occhi, marchio di famiglia! “Stasera però vi voglio tutti insieme, ospiti miei a cena”, disse mia madre rivolta a Irene con la quale fin da subito aveva stabilito una forte complicità. La cornice era fantastica e John fu colpito dal fascino del Castello Aragonese illuminato da una luna quasi piena che dominava il ristorante, posto all’inizio del pontile che congiunge la terraferma al Castello, nel quale cenammo. “E’ tutto splendido, grazie, ma questo Castello è qualcosa di fantastico! (e detto da uno scozzese….!). Ma fu un attimo e tornò a Londra, non poteva restare che pochi giorni; doveva finire di incidere un album con i Simple Minds, la band scozzese di cui faceva parte.

Sul finire della stagione estiva il lavoro per me e Irene va scemando: abbiamo più tempo da dedicargli ed allora? Invitiamo John, ma stavolta lo aspetta un regalo: mia madre gli aveva prenotato una camera nella piccola locanda proprio sulla rocca del Castello che lo aveva stregato. Ma lo vedemmo poco comunque: solo a pranzo e a cena. Ricordo che John mi disse che l’atmosfera di quelle mura avevano esercitato su di lui una attrazione talmente magnetica da impedirgli di scendere durante tutto il giorno neppure per godersi un tuffo a mare: “è il luogo ideale per comporre!”. Fa ancora caldo. E un’estate lunghissima, ma i gruppi non arrivano più e le terme sono chiuse. Irene dopo mesi lontano da casa vuole andare a rivedere i genitori vicino Glasgow : “ma tu Francesco perché non vai a trovare John a Dorking…mi chiede sempre di te?”.

Sono nel Surrey: John mi è venuto a prendere all’aeroporto di Londra col suo gippone e con Cassandra! Non è la sua fidanzata ma una cagnolona tutta nera e con lo stesso carattere festoso e affettuoso del suo padrone. Coccole, carezze, slinguate, si sprecano per tutto il tragitto e oltre. Una volta arrivati a casa, un villetta isolata al confinare di una splendida foresta, si cena presto. John è sobrio nel mangiare e regolato nel bere e negli orari, con uno stile più consono ad un militare in servizio che ad un musicista…e che musicista: è il bassista che subentra a Forbes nei Simple Minds, una delle band che ha fatto la storia della musica rock britannica e mondiale. Finito di mangiare, la sera spesso si ritirava in un’ala della casa piena di strumenti musicali a provare o a scrivere, ma per poco, tanta era la sua gentilezza d’animo che, per farmi compagnia, smetteva di suonare e mi raccontava tanti aneddoti della sua vita professionale condivisa con musicisti del calibro di Peter Gabriel, Donovan, Kate Bush, Sting e tanti altri con cui aveva suonato come session man nelle registrazione dei loro più grandi successi.

In quei giorni sveglia all’alba: lui incide a Londra ma se non usciamo di casa entro le 7,00 il traffico si congestiona e non si arriva più. Io vado con lui alle sale di incisione e altre volte gironzolo per Londra aspettando che finisca di lavorare. Ma la breve vacanza sta per finire ed io voglio godermi l’ultimo giorno in solitudine lontano dal caos della metropoli che tra l’altro conosco molto bene ma che non amo particolarmente. Così John mi dice di prendere con me Cassandra e fare una bella camminata tra i boschi che circondano casa sua. E’ un foresta meravigliosa, i colori, la varietà di piante, gli odori, e i riflessi che alcune zone acquitrinose riverberano in su, fra i tronchi secolari. Dopo un bel po’ mi riposo su una panchina di legno e ricordo mi colpì una targhetta in metallo in memoria di un eroe della RAF, il cui aereo era caduto in quei luoghi durante la II W.W. Riprendiamo a camminare e ci inoltriamo ancor di più nel fitto: è ancora presto per rincasare e John non sarebbe tornato, come sempre, che verso il tramonto. Ad un tratto sento che i piedi affondano in una pozzanghera. Sempre con Cassandra a guinzaglio alzo a stento le gambe che avverto pesanti e penso che ho bello e rovinato scarpe e pantaloni col fango. Ma non ne esco, anzi affondo e in un attimo il fango è alla vita. Non sono luoghi che conosco e di simili dalle mie parti non ce ne sono, ma capisco: sono sabbie mobili. Lascio subito il guinzaglio per non condannare anche Cassandra che con un salto si porta sul lato asciutto della pozza.

Ora i miei battiti sono a mille, il terrore è misto però alla consapevolezza che, per quanto appreso negli studi, ci si debba muovere meno possibile. Il cane inizia ad abbaiare forte. Siamo soli nel raggio di miglia, io non grido, riesco solo dire: “Cassandra”, mentre la fisso con gli occhi sbarrati. Lei si volta, un giro agile su se stessa a rufolare intorno e scompare. Ma che fa? Va via per cercare aiuto? Resto solo nel panico. Passa un minuto o forse meno, ma per me è un’eternità: ma Lei è di nuovo lì, le quattro zampe ben salde sull’asciutto e un grosso ramo in bocca. Me lo tende, lo afferro. Peso una settantina di chili per un metro e 84, ma sento che dall’altra parte del tronco che tiene stretto fra i suoi denti, Cassandra sta applicando una forza disumana. Piantate nel terreno, le zampe lasciano impronte profonde tanto è lo sforzo che sta producendo: non molla mai la presa, il movimento è costante e a tutt’oggi ancora mi chiedo dove abbia trovato la forza per tutti quegli interminabili minuti, senza poter nemmeno respirare a fauci aperte per non lasciar cadere il ramo. Sono Fuori. Steso a terra. Cassandra mi lecca tutto il viso, io la strapazzo in tutti i modi: mi conosci da pochi giorni ed hai rischiato di perdere la vita per salvare la mia. La sera è un turbinio di emozioni che si susseguono nel raccontare a John l’accaduto.

Ora vi lascio portando con me il ricordo di aver conosciuto una persona vera e meravigliosa, dell’amicizia che mi donò e, indelebilmente impressa nella mia mente e nei miei occhi, l’immagine di Cassandra che mi fissò con quei suoi occhioni neri, guaendo, quando vide allontanarmi, nel garage dell’aeroporto. Non l’avrei più rivista, ma chiamato John, una volta arrivato a Ischia, per dirgli che il viaggio era andato tutto bene e per ringraziarlo, mi disse che quella sera Cassandra era triste e che andava spesso ad odorare la camera che mi aveva ospitato. VIDEO

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