A colloquio col prof. Franco Riva: partecipazione e responsabilità

Prof. Franco Riva

Prosegue con grande successo la serie di Cenacoli letterari ed il cineforum promossi dal Circolo Endas e dal Gran Caffè Marianello col patrocinio della Città di Piano di Sorrento , dell’Informatore Scolastico e dell’Università della Cucina Mediterranea.
Al centro del secondo incontro i temi della partecipazione e della responsabilità, pilastri indispensabili di una vera democrazia. Ad intervenire è uno dei più prestigiosi filosofi contemporanei, il prof. Franco Riva (docente di Etica sociale e Filosofia del Dialogo presso l’Università  Cattolica Milano). Fra i suoi numerosi libri ricordiamo “Idoli della felicità. Lavoro, festa e tempo libero” (2006), ”Dialogo e libertà. Etica, democrazia, socialità” (2003), ”La rinuncia al sé. Intersoggettività ed etica pubblica” (2002). E ancora “Filosofia del viaggio” (2005), “Il Volto e l’Interfaccia” (2010), e “Partecipazione e responsabilità. Un binomio vitale per la democrazia” (2007),  il libro della presentazione di stasera.
 
Se separiamo tra loro partecipazione e responsabilità c’è il rischio o di una democrazia populista (cioè di una partecipazione senza potere e di un sostegno di tipo plebiscitario alle scelte che provengono dall’alto) oppure di forme autoritarie/tecnocratiche di potere, che prendendo a pretesto la lunghezza delle procedure democratiche e la complessità tecnica delle decisioni, limitano la democrazia stessa.
Vediamo di capire attraverso la lettura del suo libro cosa sono la partecipazione e la responsabilità. Perché è importante partecipare?

Prima ancora di configurarla in dettaglio, partecipazione e responsabilità pongono insieme il problema stesso della democrazia. E’ impossibile capirle dall’esterno del loro intimo rapporto, come si trattasse di compilare una voce di dizionario, di dare qualche definizione. Partecipazione e responsabilità prendono senso all’interno di un dialogo costante e ravvicinato. Come in un quadro che, per risultare armonico ed equilibrato, deve giocare su entrambe le gamme di colore, quelle calde e quelle fredde. In democrazia ogni decisione matura nella partecipazione, e la partecipazione si deposita a sua volta nelle decisioni prese: le decisioni nascono dalla partecipazione, la partecipazione verifica le decisioni.
Partecipare non si riduce alla conta dei numeri per determinare le maggioranze e le minoranze necessarie alla dialettica democratica. Non è la giustificazione, veloce e strumentale, per abilitare chi deve governare. Per la democrazia partecipare è vitale, tanto quanto respirare per ogni essere vivente”. 
 Gli articoli 4 e 118 della Costituzione indicano i vari modi di partecipazione. Come si può partecipare oggi?
“I profili della partecipazione sono molteplici. Diversi di questi sono previsti e codificati espressamente, come i momenti elettorali e politici. Profili dunque istituzionali e politici che hanno bisogno dei momenti sociali e civili della partecipazione. Ogni luogo sociale ne è l’occasione. Città, scuola, lavoro: in democrazia niente si sottrae al suo spirito. Nemmeno la cultura: la partecipazione segna il passaggio dall’indottrinamento alla maturazione di convinzioni.
Ogni profilo di partecipazione è importante, nessuno va trascurato. Il senso politico e istituzionale è talora distorto, talaltra bloccato, e va senz’altro recuperato. Il suo senso civile, là dove ci sono i luoghi di vita, resta sempre troppo trascurato. Il senso culturale e mediatico, infine, s’impone adesso come la frontiera del Far West della partecipazione: luogo dove rischia di scivolare di già verso un’uniformità di opinione che prepara l’applauso”. 
 Si ha l’impressione che la partecipazione sia spesso per i politici un sovrappiù: se i cittadini partecipano bene, altrimenti si va avanti ugualmente. Ma allora la partecipazione è il sale della democrazia o un semplice optional?
“Solo con la convivenza democratica esplode il problema della partecipazione. Non si può negare che la politica di professione la tenga talora rinchiusa in una specie di riserva indiana dei voti: necessaria quindi, ma anche funzionalmente addomestica. Per altro verso è altrettanto evidente che, per accreditarsi, la politica deve fare costante riferimento alla partecipazione.
La situazione è paradossale. La partecipazione è svilita e richiesta al tempo stesso, insultata e invocata, derisa eppure attesa e temuta. Sempre sostenuta quando deve accreditare la politica, sale invece sul banco degli imputati, perfino snobbata, quando viceversa la critica”.
Si avverte sempre più un problema di subalternità della politica rispetto all’economia. Come si può riequilibrare questo rapporto?
“Il linguaggio pubblico e le agende della politica sembrano dettati sempre più dall’economia, e non solo nei momenti di crisi. Quasi che la vita democratica fosse teleguidata a distanza, quasi che le decisioni siano in qualche modo già prese.  L’effetto è curioso: una politica che tiene la partecipazione al guinzaglio si ritrova a sua volta spiazzata dall’economia e dalle sue improrogabili esigenze. Eppure, quanta retorica quotidiana sulla leadership e sugli esecutivi forti, sulla necessità di concentrare la responsabilità perché le cose tornino finalmente a funzionare. Com’è possibile darvi credito, se il luogo delle decisioni non coincide più con quello politico? La subalternità della politica rispetto all’economia si recupera nel dialogo ravvicinato tra partecipazione e responsabilità. Custodire pluralismo, istituire la diversità delle voci, rendere possibili se non altre delle ipotesi per percorsi alternativi: senza questo, tutto sarà sempre più deciso non si sa bene dove e come”.
Lei ha parlato di etica della democrazia. Cosa intende?
Tra etica e democrazia sembra di assistere a una lotta senza fine, almeno per com’è impostata di solito la questione. Da un lato troviamo i difensori zelanti di un’etica che sta del tutto altrove, e che lascia la democrazia nuda e sola con se stessa. Da un altro lato ci sono gli appassionati della democrazia che insistono per reazione, da Kelsen in poi, sul relativismo dei valori come suo presupposto necessario, il che lascia l’etica senza casa.
La democrazia s’inquadra in un orizzonte di relatività che non significa per sé relativismo. Relatività, perché la democrazia prende sul serio la pluralità originaria dell’umano, senza nostalgie per regni perduti dell’identità che non sono mai esistiti, per Atlantidi scomparse della perfetta concordia. Tuttavia senza relativismo, anche se su questo i contendenti sembrano andare stranamente d’accordo: per lo stesso motivo, solo capovolto di segno. Quello che agli uni pare un vantaggio, agli altri sembra una rovina. Quanto più s’insiste a far coincidere la democrazia con un relativismo dei valori, tanto più si alimentano le diffidenze e le riserve da un punto di vista morale. E quanto più si considera la democrazia quale semplice tecnica di convivenza, su cui la morale interverrebbe miracolosamente come il bastone con l’asino, tanto più si vorrà difendere il suo spazio in senso relativistico. L’etica non è esterna alla democrazia. La democrazia non è indifferente ai valori. Porta anzi con sé una scelta etica discriminante: la responsabilità gli uni per gli altri. Senza l’origine continuamente rinnovata nella responsabilità, tutto nella democrazia sarà equivocato, tutto sempre buono per qualsiasi uso: la relatività diventa relativismo, la dialettica delle opinioni gioco di forza, la partecipazione fabbrica del consenso, i luoghi del partecipare occupazione e presa di possesso”. 
Oggi c’è un inatteso ritorno d’interesse per il bene comune e per i beni comuni. Ne ha parlato anche il premio nobel per l’economia Elinor Ostrom, indicando una terza via tra capitalismo e comunismo. Ciò vuol dire una società più umana e più conviviale. Ritiene possibile questa utopia?
“Bene comune non significa bene superiore, cui le parti e gli individui possono essere sacrificati come in un enorme olocausto. La convivenza democratica ha imparato per tempo di non essere per nulla al riparo da un simile pericolo. Una storia sacrificale è il sottotitolo che Maria Zambrano sceglie, non a caso, per il suo libro Persona e democrazia.
Il bene è comune se di tutti e per tutti. Se partecipato e condiviso. La terza via non è un’utopia, anche se si realizzerà a fatica. E’ l’orizzonte stesso della socialità dell’umano, della democrazia, il cui tempo, come ricorda Jacques Derrida, appartiene solo al futuro”.
Che cosa è giusto oggi? C’è un’idea condivisa di giustizia?
“La giustizia è logorata. A livello teorico rischia di fissarsi in una semplice distribuzione tra parti le meno diseguali possibili, cosa peraltro essenziale – ma non è più stagione nemmeno per questo. A livello delle pratiche s’incaglia spesso nella improbabile elaborazione di leggi condivise. Il senso della giustizia è stato tenuto per troppo tempo in uno stato d’inferiorità, e quasi di ostaggio, rispetto a dimensioni a prima vista più profonde e coinvolgenti quali l’amore o l’amicizia, come a segnare tutta la distanza che passa tra la dimensione pubblica e quella privata della vita.
C’è viceversa una giustizia da rendere all’umano nella sua umanità, alla dignità della sua esistenza e delle sue condizioni, alla fioritura delle sue possibilità, che non è diversa, non così distante, dall’amore e dall’amicizia. E che tuttavia si pratica nell’impegno e nelle logiche comuni per dare forma umana alla città”.
Non possiamo nascondere che in Italia esista il problema dei mass media, che solo apparentemente favoriscono la partecipazione. Che differenza c’è tra un indice di ascolto, l’audience, i sondaggi d’opinione e la vera partecipazione democratica?
“In democrazia anche i media devono essere partecipati, anch’essi aiutare a prendere decisioni responsabili e consapevoli. Il modo con cui si struttura e si organizza la comunicazione pubblica rivela sempre molto dello stato di salute di una democrazia. Un linguaggio troppo semplificato, ripetitivo, scontato, ridotto a slogan. Informazioni a sensi troppo direzionati. Parole che diventano ogni volta ritornelli dell’ultimo minuto riproposti ossessivamente all’infinito. Nella monotonia del linguaggio pubblico, cui non si sottrae di certo il gioco urlato delle parti di continuo mandato in onda, s’incrina molto del partecipare. Non è solo faccenda di pluralismo. Un sistema pluralistico può essere solo la frammentazione del monopolio, può benissimo parlare dei monologhi parcellizzati dove ci si accontenta di avere la propria fetta mediatica di torta, o quel che ne resta.
La differenza risiede nella protesta del dire rispetto al detto. A seconda dei casi, il detto usa le parole ora come coriandoli evanescenti, ora come mitragliate: è rivolto a tutti senza essere rivolto a nessuno. Nel dire affiora invece il modo, il come: la responsabilità per l’altro cui si osa rivolgere la parola, a maggior ragione nella sua potenza mediatica”.
Lei ha scritto che “i colori vivaci e caldi della partecipazione vengono a loro volta composti con le tinte mentali della responsabilità, che comincia dentro -non dopo, non fuori – la partecipazione”. Con questa bella similitudine chiudiamo provvisoriamente questo argomento, per passare ai due film in competizione stasera. Due esempi di partecipazione tradita. Nel film “Operazione Valkiria” è un gruppo di aristocratici ufficiali che si sente tradito dalla politica dittatoriale di Hitler che pur aveva suscitato in un primo momento tanti entusiasmi.
Nel film “La rosa bianca” è un gruppo di giovani studenti universitari che coraggiosamente, in nome dei valori cristiani, lancia la sua sfida a Hitler. Altri tempi, altre condizioni storiche. Cosa ci insegnano queste due storie? Per chi voterà il prof. Franco Riva?
“Le storie sono diverse. In un caso si tratta di persone deluse che tentano di salvare qualcosa all’ultimo momento, sulla scia di un “Chi l’avrebbe mai detto?” o di un “Non credevamo che…”. Ripensamenti, dunque, disillusioni, pur sempre tardivi. Nell’altro caso si rischia subito il coinvolgimento in prima persona, e si assume il coraggio della propria responsabilità.
Insegnano che non si è uomini senza condividere il destino degli uomini, senza responsabilità per gli altri, senza coinvolgersi, senza partecipare. Insegnano che non si può stare sempre a guardare. Soprattutto, che non si può affidare ad altri il dovere di partecipare alle decisioni comuni, che la capacità di responsabilità è incedibile tanto quanto la propria umanità. Insegnano che non ci sono superuomini. Che non ci si può nemmeno accontentare di essere, meschinamente, meno che uomini.
Sbugiardano le parole troppo sicure di se stesse, troppo sbandierate, troppo gridate. Con un po’ d’ironia, ho risposto al contrario. Ho detto per chi, per cosa, non voto”.

(di Antonio Volpe)

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