“Covid-19…Il Paese che verrà/4”: CLAUDIO D’ISA, il pianeta giustizia

claudio-disaL’emergenza covid-19 tra le tante attività cui ha imposto uno “stop forzato” ne ha determinato uno che riveste un carattere assolutamente particolare, quello della giustizia. La sospensione dell’attività giudiziaria, in minima parte svolta col sistema della videoconferenza, ha finito con l’accentuare ulteriormente i problemi prospettando, anche qui, la necessità di una rivisitazione di procedure e udienze. Facciamo il punto sullo stato del pianeta giustizia col dott. Claudio D’Isa, magistrato di lunghissima e prestigiosa carriera iniziata nel 1975 e svolta a tutti i livelli e gradi dell’ordinamento giudiziario fino al 2017 come presidente della IV e VII sezione penale della Corte di Cassazione. Dal 2017 svolge l’attività di avvocato cassazionista in materia penale occupandosi di importanti processi assurti anche alla ribalta nazionale.

Dottor D’Isa la crisi dovuta al covid-19 ha imposto anche alla giustizia italiana una serie di problemi destinati, fuor di dubbio, a cambiarla rispetto a quella che è stata finora…

“Mi permetta di precisare, innanzitutto, che ho il privilegio di poter dare un mio parere sotto due angoli di visuale: quella del magistrato, in servizio sino a tre anni fa, dopo quarantatre anni di carriera, e quella dell’avvocato, professione esercitata attualmente. Non è che lo stato della giustizia cambia a seconda di chi lo guarda, la giustizia è sempre la stessa: deve consistere nella corretta applicazione delle norme sostanziali e procedurali penali e/o civili da parte della magistratura con il controllo dell’avvocatura, chiamata a difendere i diritti garantiti dalla Costituzione di coloro che sono sottoposti a processo penale o delle parti, portatrici di interessi contrapposti, nei processi civili. Solo che, ora che sto da questa parte dello scranno della giustizia, mi son reso conto, più di prima, come l’interdipendenza del lavoro della magistratura e dell’avvocatura sia essenziale per dare una giustizia quanto più equa possibile”.

Due sono le situazioni critiche che riguardano sia il processo penale che quello civile: la irragionevole durata per entrambi i processi e la conseguente non certezza della pena e della sua effettiva esecuzione per il processo penale e la non certezza della eseguibilità della sentenza esecutiva in civile.

“Le posso rispondere in maniera più dettagliata per quanto riguarda il versante penale, del quale mi sono occupato come magistrato e me ne occupo ora come avvocato. E indubbio che esso ha un impatto immediato sulla massa dei cittadini, anche se la denegata giustizia civile è a sua volta un fattore criminogeno non trascurabile. Come è stato sempre evidenziato dai Primi Presidenti della Cassazione, con i discorsi inaugurali dell’anno giudiziario, <<l’aumento generalizzato del contenzioso civile evidenzia il consolidamento, nella nostra società, di un’estesa conflittualità nei rapporti intersoggettivi che non trova possibilità di anticipata composizione nell’ambito sociale e familiare, con la conseguenza che si ricorre sempre e soltanto al giudice, anche quando, specialmente in alcuni settori, sarebbe possibile ed agevole l’utilizzo di adeguate strutture di mediazione>>”.

Abbiamo ancora nelle orecchie gli echi dei discorsi dell’apertura dell’anno giudiziario e dei titoli della stampa ”Processi più lenti che in Africa”, la denegata giustizia è la regola, boom di risarcimenti per i tempi lumaca e cosi via, chi più ne ha più ne metta.

“Alla base ci sono delle verità indiscusse testimoniate dai dati statistici, basta riportarne pochi per renderci conto dello stato di decozione della giustizia italiana, e sono quelle oggetto della relazione del Primo Presidente della Suprema Corte: innanzitutto spendiamo più di ogni altro paese in Europa per essere confinati al 151°posto nel mondo in una classifica che ne comprende 181. Basta citare i paesi che sono classificati meglio di noi: Angola, Gabon, Guinea, Gibuti, Liberia, Srli Lanka per rendersi conto della considerazione che ha il resto del mondo della giustizia italiana. Con tutto il rispetto che si può avere per i paesi citati, pensare che essi siano più considerati dell’Italia, erede della “jurisprudentia romana”, del diritto medievale, per non parlare dei sommi giuristi italiani che hanno insegnato nell’800 e nel ‘900 il diritto a tutto il mondo, fa veramente un effetto deprimente”.

Se la macchina giudiziaria fosse un’impresa dovrebbe portare i libri contabili in tribunale e dichiarare fallimento

“E ciò è certamente vero, l’amarezza di una considerazione non adeguata del sistema giustizia lascia perplessi, mi piace, infatti, ricordare una frase di Azeglio Ciampi quando era capo dello Stato e che più volte ebbe a ripetere lanciando un monito << la modernità e la civiltà di un Paese si misurano in modo precipuo dal suo sistema giudiziario e dalla capacità di questo di dare risposte adeguate e tempestive alla richiesta e al bisogno di giustizia dei cittadini>>. Elencare i fattori che determinano la elefantiaca lentezza della giustizia non è difficile, non bisogna però trascurare di osservare sempre con riferimento alle statistiche che, pur rimanendo sostanzialmente inalterato il numero dei magistrati da vent’anni a questa parte, il numero dei processi è aumentato in maniera esponenziale e la produzione di ogni magistrato è pur essa aumentata, ma il saldo inevitabilmente è sempre passivo. Ed ora si è aggiunta la sospensione dei procedimenti ordinari e dei termini processuali a seguito della contingenza causata dalla pandemia per coronavirus, questa paralisi assesterà il KO definitivo al sistema giustizia. Che fare?
E’ impossibile prevedere un minimo di risultati per la giustizia penale nei prossimi anni. Per risolvere i problemi non c’è altro modo da fare che quello di porre mano a riforme radicali, ma non quelle che sono destinate a tamponare singole disfunzioni, o che servono vieppiù a tutelare interessi di pochi, ma quelle che determinano una svolta culturale sulla base di una concertazione del legislatore con i tecnici del diritto, magistrati, avvocati, ed amministrativi della giustizia. E’ imprescindibile la necessità che il legislatore debba sentire e discutere con chi il diritto lo deve applicare e non mostrarsi infastidito quasi per una lesa maestà come quando in qualche occasione il C.S.M. si è permesso di fornire un proprio parere su di una legge emananda”.

Ci fa un esempio per comprendere meglio la questione?

“Certo. Quando nel 1999 si riformarono le preture e si introdusse il giudice unico monocratico indiscutibilmente l’aumento della produzione in Tribunale fu consequenziale. Difatti al Tribunale collegiale, cioè composto da tre magistrati, fu riservata una competenza per materia molto limitata riguardante reati particolarmente gravi, il resto, la massa dei reati, è stata demandata alla competenza di un solo magistrato. Per cui, laddove prima lo stesso lavoro veniva fatto da tre magistrati contemporaneamente, dopo, ognuno di quei tre magistrati produceva da solo lo stesso numero di sentenze. L’aumentata produzione del Tribunale ha però ingolfato la Corte d’Appello che continua a decidere in composizione collegiale ed il cui organico dopo la riforma è rimasto inalterato. In cassazione, dove si può tastare il polso della situazione, è facile verificare che il segmento temporale più lungo della intera durata del processo – mediamente dai due ai sei anni – è quello del giudizio di appello. La lungaggine del procedimento penale era dunque scontata, sarebbe bastato che al legislatore fosse stata rappresentata dagli operatori della giustizia che quella riforma senza intervenire anche sul giudizio di appello avrebbe in poco tempo portato a quei risultati. Si poteva risolvere o aumentando l’organico della Corte d’Appello, ma sarebbe costata troppo, o creando il giudice monocratico di appello stravolgendo però la funzione di controllo di tale organo, oppure limitando i casi di appellabilità delle sentenze di primo grado”.

Qual è la situazione della giustizia italiana rispetto al resto d’Europa?

“Noi siamo in Europa, ma certamente non lo siamo con l’apparato giudiziario non siamo riusciti ad indossare un nuovo abito mentale omogeneo al modo di sentire prevalente in Europa. Ad esempio la nostra cultura tradizionale ci induce a credere che il processo è migliore se accordiamo all’imputato più garanzie, senza verificare se tali garanzie possono essere realizzate in concreto e quale sia il loro impatto sull’organizzazione complessiva della giustizia del Paese. In mancanza di una seria verifica della compatibilità, ci accontentiamo della garanzia “scritta sulla carta”, che può essere per niente incidente se non ha il carattere della effettività. Ciò è dimostrato tangibilmente dal fallimento prima della funzione di filtro del GIP/GUP, nella fase delle indagini preliminari, con un uso del contagocce dell’istituto della sentenza di non luogo a procedere, e poi dei riti alternativi, con particolare riferimento al giudizio abbreviato che è visto come un ricorso ad una riduzione di pena, piuttosto che ad una prospettazione di innocenza dell’imputato allo stato delle prove acquisite.
Al pensiero giuridico europeo non interessa che le garanzie processuali siano molte. Interessa, invece, che siano effettive. In questa prospettiva, nel processo penale è sufficiente che sia assicurato un doppio grado di giudizio e che l’imputato abbia avuto una possibilità reale di essere ascoltato e di essere difeso. Non deve meravigliare, allora, se i giudici europei abbiano sanzionato come contrastante con l’esigenza di una difesa effettiva la decisione dei giudici italiani che avevano ritenuto sufficiente, per assicurare il rispetto del diritto di difesa, il fatto di aver nominato all’imputato, privo del difensore di fiducia, un difensore di ufficio, che aveva però declinato l’incarico. Il ragionamento dei giudici italiani – per i quali bastava aver fatto quanto previsto dalla legge, essendo il rifiuto del difensore un accidente ascrivibile a sua responsabilità professionale e disciplinare – è apparso al giudice europeo in contrasto con l’esigenza di effettività che è il canone guida dal quale si deve trarre ispirazione. Effettività: si tratta di una parola ricorrente nel linguaggio europeo perché ricorrente è una piccola semplice domanda: cari amici italiani – ci dice l’Europa – che ve ne fate delle vostre belle leggi, del vostro sofisticato giusto processo, se non siete poi capaci di chiuderlo, questo processo, o se la vostra decisione arriva quando oramai ha perduto qualsiasi ragion d’essere?”.

E sul fronte carceri, cosa può dirci?

“Premesso, ed è un dato di conoscenza comune, che le carceri italiane sono sovraffollate al di là di ogni immaginazione, bisogna ovviamente distinguere le due categorie: i detenuti in custodia cautelare in attesa di giudizio e quelli in espiazione pena. Per i primi vi è poco da dire se non l’invito al legislatore di limitare quanto più possibile il ricorso alla carcerazione preventiva che deve essere presa in considerazione in ultima analisi rispetto alle altre misure cautelari, con l’allargamento della detenzione domiciliare. Per i detenuti in espiazione penapurtroppo allo stato delle cose si rende necessaria una amnistia generalizzata per sfoltire le carceri e, in secondo luogo, rivedere l’istituto delle pene alternative alla detenzione carceraria con particolare allargando i casi attualmente previsti”.

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