Storia locale: la Cappella di San Giovanni Battista a Piano di Sorrento

Pubblichiamo (e ringraziamo l’Autore) questa ricerca storica sulla Cappella di San Giovanni Battista a Piano di Sorrento, in provincia di Napoli, a cura dell’avvocato Francesco Saverio Esposito.

chiesa-san-giovanni_pianoLe vicende della cappella dedicata a San Giovanni Battista nell’omonimo vicoletto di Piano di Sorrento sono avvincenti perché si confondono e si intersecano con le origini della nostra comunità. Il rione di S. Giovanni, dove i religiosi Giovanni Maresca ed Amato Cota edificarono nel 1326 la omonima cappella, fu uno dei primi se non il primo nucleo antico accentrato del paese che, posto tra i valloni di Lavinola (che divide Piano da Meta) e S. Giuseppe (che la divide da S. Agnello) venne a comporsi in pieno medioevo.

Non che in precedenza l’area corrispondente all’attuale Comune di Piano di Sorrento non fosse abitata o non vi fossero edifici, più semplicemente mancava un vero e proprio centro ovvero un insieme ininterrotto di edifici con definita rilevanza urbanistica ed il territorio si caratterizzava per masserie e fabbricati sparsi.
Dal Medioevo intorno a questo primo nucleo (conforta l’ipotesi di una datazione medievale del rione oltre al portale in stile arabo normanno della cappella il portale frontistante di tipo catalano presumibilmente risalente al 400’) si svilupparono Cassano e Gottola da cui, attraverso l’omonimo vicoletto, era possibile raggiungere uno slargo, dove attualmente insistono la Basilica di S.Michele (edificata dopo il 1570 sulle rovine di una chiesa romanica) ed il contiguo Monastero risalente ai primi del 600 (la Campana della cappella annessa al Monastero è datata 1630). Proseguendo lungo altro viottolo, che oggi conosciamo con il nome di via S. Margherita, si perveniva non già in Piazza Cota (realizzata solo nella seconda metà dell’800) bensì in un altro spiazzo (molto più piccolo dell’attuale piazza Cota.) e, quindi, ad un crocicchio dal quale avevano inizio altri due vicoli: via casa Rosa (dal nome dei famosi maestri d’ascia della Marina di Cassano “De Rosa” che vi abitavano. Ne ricordo uno per tutti: Giovan Battista che ha costruito decine di tartane e polacche nel corso del XVIII secolo) e via Casa Lauro.

via-santa-marcgheritaEra questo il rione dove, almeno a partire dai primi del ‘600 se non da prima, abitavano i Lauro, una stirpe di marinai ed armatori ma non solo. Da questo ceppo anche notai, medici e religiosi come un certo Don Bonaventura che fu (verosimilmente per volere di Carlo di Borbone allorquando fu Re di Napoli) cappellano della Guardia Vallona, un reggimento di mercenari al servizio prima di Filippo V di Spagna e successivamente, dal 1759, di suo figlio Carlo III.
Anche in questo caso la datazione del rione dei Lauro può desumersi dal portale del fabbricato ad angolo tra il vicoletto Casa Lauro e Via Bagnulo. Sulla pietra di chiusa, segnata dallo stemma della famiglia Lauro, sono incise le lettere “S” ed “L” che, con tutta probabilità, sono le iniziali di Don Saverio Lauro, facoltoso armatore che, vissuto tra 600’ e 700’ (ma questa è un’altra storia), fu nella metà del 700’ , per l’esattezza dopo il 1753, Governatore della Insigne Real Collegiata di S.Michele.

L’Amministrazione dell’edificio religioso più celebrato del Piano di Sorrento era, all’epoca, laica e, sostanzialmente, per intero nelle mani di una cupola oligarchica composta dai capitani di bastimento più influenti (di solito erano espressione delle famiglie Lauro, Maresca nelle sue varie ramificazioni, Massa, Mastellone, Cota, De Ponte, Cafiero, Cacace ecc…).
Il consiglio dei capitani si riuniva periodicamente all’interno dell’annessa Congrega della SS. Annunziata. Questa era ed è collegata alla Basilica attraverso un passaggio che congiunge le due sagrestie. Nel medesimo palazzo (di Don Saverio Lauro) nel periodo 1747-1757 ha esercitato funzioni notarili il notaio Giovan Michele De Lauro che di Don Saverio aveva sposato la figlia Giuditta.
Invece a datare il rione S. Margherita soccorre un portale posto proprio di fonte all’ingresso di quel fabbricato colorato in rosso pompeiano edificato intorno alla metà dell’800 dall’armatore Arcangelo Cacace. Il portale, di cui allego una recente foto, recante sulla pietra di chiusa in alto lo stemma dei Cacace, è databile intorno al ‘500.

E’ quella dei Cacace una delle famiglie più antiche ed illustri di Piano (i Cacace con i Massa ed i Maresca furono compatroni fino al 1861 della Basilica di S. Michele da loro realizzata, come affiora dall’atto per Notar Ferrante Maresca del 1569 sottoscritto dai maggiorenti delle tre casate, nella seconda metà del 1500 sulle rovine di una chiesta romanica) dimorante proprio in quel rione sviluppatosi intorno alla Cappella della Madonna della Libera sulla quale la famiglia esercitava il patronato. In un atto del Notaio Biagio Massa del 1785 si dà atto dei compensi che il Dott. Fisico Carlo Cacace, padre del noto Avv. Tito Cacace (avvocato e giornalista, già senatore nel primo parlamento nazionale riunitosi nel 1861 a Torino), aveva versate ad alcune maestranze napoletane per lavori di restauro all’interno della cappella. Carlo Cacace fu noto medico della città di Napoli dove abitualmente dimorava.

Tornando alla cappella di S. Giovanni appare opportuno ricordare quanto affiora dalla lettura di atti conservati nell’archivio di S. Michele (ovviamente non del 1300 ma successivi) e, peraltro, già in parte visionati e descritti nell’opuscolo sulla Basilica di S. Michele redatto nel 1936 dall’Avv. Francesco De Angelis con l’ausilio del parroco Michele Maresca. Più recentemente agli stessi atti si è rifatto il com.te Pietro Antonio Iaccarino (cultore di storia cittadina) in un sintetico ma chiaro saggio storico di qualche anno fa .
Il 31 agosto 1326 il Vescovo di Sorrento Matteo di Capua concesse ai religiosi Amato Cota, figlio di un Matteo, e Giovanni Maresca, figlio di un Boninfanti, la facoltà di costruire in località “Cazzani” una cappella intitolata a S. Giovanni Battista.

Ho di recente rinvenuto, sempre tra gli atti dell’archivio parrocchiale, una nota della quale fu probabile autore, nel 1828, tale Don Agnello Cota che condusse studi sull’atto fondativo della Cappella( redatto nel 1326) conservato nell’archivio della Curia di Sorrento. Don Agnello appurò come tale atto , con cui Cota e Maresca erano stati , nel XIV secolo , autorizzati ad edificare la cappella ricevendone il patronato perpetuo, fosse stato successivamente,nel 500’, allorquando vescovo di Sorrento era Mons. Bartolomeo Albani, esaminato e ritrascritto in un atto del Notaio Giovan Carlo Maresca (Giovan Carlo Maresca era notaio rogante nella città di Napoli) del 25 gennaio 1554. E ,dunque, il nostro prelato nella prima metà dell’800 studiò l’atto trasmettendoci tutte quelle notizie poi riprese in vari studi storici successivi. A lui certamente dobbiamo molto di quanto oggi sappiamo sulla cappella di Giovanni Battista.
Nello stesso faldone di atti è allegato un foglio vergato a mano dove si da cenno ad un decreto rilasciato dalla Curia ,il 21 febbraio 1231, alla famiglia Maresca. Sebbene non sia chiaro quale fosse l’oggetto del decreto (l’argomento è di certo da approfondire) il riferimento all’anno 1231 appare di sicuro interesse.

Infatti lascia intuire che a tale epoca il ceppo Maresca fosse già presente in loco e, con tutta probabilità, che avesse, proprio intorno al 1200, intrapreso l’edificazione del rione di S. Giovanni che, a questo punto, deve assumersi risalente al XIII secolo e non già al XIV secolo come riporta la targa fatta apporre, tempo addietro, dal Comune. Inoltre la visura dei registri parrocchiali del ‘500, quelli dove sono riportati battesimi, matrimoni e morti, conforta l’ipotesi che nel 1200 non fossero molti i nuclei familiari avente cognome Maresca, probabilmente circoscritti ad uno o due famiglie. A confermarlo sovviene il testo di Benedetto Maresca D’Onnorso ove vi si afferma che in epoca aragonese erano 10 le famiglie con tale cognome e che solo nel 1650, e cioè in periodo vicereale, diventarono 45.
La cappella è rimasta nel patronato delle due famiglie, Maresca e Cota, fino ad epoca recente e solo nel 1927, come chiarirò nel prosieguo, i discendenti fecero donazione del patrimonio della cappellania alla Curia di Sorrento. Ovviamente tale patrimonio nel corso dei secoli si accrebbe dei lasciti che nel tempo avevano effettuato membri delle famiglie Cota e Maresca.

Accanto alla cappella di S. Giovanni si sviluppò, quindi, a partire dai secoli XIV-XV, un primo nucleo antico di edifici. Da atti che ho visionato presso l’Archivio Notarile di Napoli (e anche presso l’Archivio di Stato a Pizzofalcone. Oggi tutti gli atti notarili, dal 500’ alla fine dell’800, sono stati trasferiti alla sede centrale in Piazzetta Archivio) emerge che i rioni di San Giovani, Cassano e Gottola, fossero abitati essenzialmente da padroni marittimi, marinai, maestri d’ascia (quelli che i bastimenti li costruivano nella sottostante Marina di Cassano) e calafati.
Chi fosse il padrone marittimo è presto detto. La proprietà di un bastimento si divideva in 14 quote, dette “legni”, e chi ne possedeva la totalità o ,comunque, la maggioranza assumeva la qualità di padrone ed il comando dell’unità.
Bisognerà attendere il 1751 (nello stesso anno fu istituita, per volontà del Sovrano, anche la Reale Compagnia delle Assicurazioni Marittime), con la riforma voluta da Re Carlo, perché fosse prevista per le funzioni di comando di un bastimento la qualifica di “capitano”. Titolo acquisibile solo dopo aver superato un difficile esame di abilitazione innanzi ad una Commissione formata da ufficiali di marina che ,periodicamente, si riuniva a Napoli nell’antico collegio del Pilotini. L’esame era tutt’altro che semplice vertendo ,oltre che su materie professionali quali astronomia, navigazione, matematica, balistica ecc.., anche sulla conoscenza di due lingue straniere e della lingua latina. La qualifica di capitano abilitava alla navigazione di gran cabotaggio e ovvero fuori dallo stretto di Gibilterra.

Inizialmente, nel ‘600, questi nostri avi navigavano su piccoli bastimenti denominati “tartane” (bastimenti generalmente con un solo albero armato con vela latina. A Cassano ed Alimuri se ne varavano di più grandi armate con tre alberi) . Alle tartane, che continuarono ad essere costruite fino ai primi dell’800 ed oltre, si aggiunsero, nel ‘700, velieri più articolati denominati “polacche” dotate di maggiore velatura, meglio e più adeguatamente equipaggiate (il ruolo equipaggio che normalmente era di 15-20 uomini veniva talvolta aumentato fino a 25-30 marinai per viaggi più lunghi e complessi). Le “polacche”, inoltre, erano anche più convenientemente armate per la difesa da eventuali attacchi delle navi corsare che avevano i loro porti di partenza in Nord Africa. Dal 1750 per disposizione di Re Carlo ogni nave, anche mercantile, doveva essere armata con almeno 4 cannoni.

Qualcuno si è mai chiesto cosa sono quei due cannoni posti a corredo del monumento ai caduti della Grande Guerra in Piazza Cota? Recentemente l’ho chiesto a diversi cittadini in transito nei giardini innanzi al Municipio ricevendone risposte alquanto sorprendenti. Quasi tutti ritengono trattarsi di cannoni risalenti al Primo Conflitto Mondiale (!?).
Ebbene quelli collocati a corredo del monumento ai caduti della Prima Guerra mondiale sono in realtà cannoni del tipo di quelli che armavano le polacche varate alla Marina di Cassano. Il più lungo per tiri a più lunga gittata e l’altro, più corto, usato se lo scontro era ravvicinato. I due cannoni, residuato degli armamenti di bordo del XVIII secolo, vennero infatti rinvenuti alla Marina di Cassano alcuni decenni orsono.
E, dunque, intorno alla cappella di S. Giovanni si sviluppò una comunità dedita alle attività marittime che annoverava una fitta schiera di capitani e armatori, marinai, tessitori di vele, maestri d’ascia, carpentieri in legno, calafati e altri specialisti ancora.
I calafati di Cassano erano, per le loro competenze, particolarmente apprezzati e richiesti, come prova un atto notarile del Notaio Giovan Michele De Lauro del 1754: in quell’anno un capitano del terziere di Meta, Antonino Longobardo, dovendo procedere a calafatare la propria tartana sullo scalo alla Marina di Alimuri, si rivolse la maestro calafato Andrea Maresca dimorante nel vicoletto di S. Giovanni.

Il capitano Longobardi non aveva tutta la somma occorrente per pagare il compenso richiesto dal nostro Mastro Andrea Maresca e, quindi, fu costretto ad obbligarsi a soddisfarne le pretese impegnandosi a versargli parte del ricavato dei futuri viaggi commerciali. Con formula di stile, poi, il capitano Longobardi assicurava il proprio creditore che avrebbe navigato in ogni parte del mondo, ma non verso quelle nazioni in guerra con il Regno di Napoli (come noto il regno prenderà la denominazione di Regno delle due Sicilie dopo il congresso di Vienna del 1815 con la unione dei regni di Napoli e di Sicilia).
L’atto conferma un dato abbastanza ovvio: quella lungo la costa, da Cassano a Scutolo, all’epoca nel territorio della Universitas Civium del Piano di Sorrento (che comprendeva i territori degli attuali comuni di Piano di Sorrento, Meta e Sant’Agnello), era una comunità omogenea quanto a struttura economica e sociale. L’attività economica di punta trainante era quella marittima per cui tutto ruotava intorno alle costruzioni navali, a Marina di Cassano e Alimuri e ai traffici mercantili.

Non a caso al censimento del 1727, voluto dal governo Vicereale Asburgico per registrare le attività marittime lungo tutta la costa tirrenica del vicereame austriaco, la marina del Piano di Sorrento, con 115 bastimenti (compresi 4 idonei alla navigazione oceanica. Di due di questi vascelli erano proprietari Pietro Antonio Maresca e suo fratello Niccolo’ entrambi del ramo soprannominato “Mangiagalline” e, quindi, tra i compatroni di S. Giovanni), era la più cospicua della costa tirrenica da Gaeta a Reggio Calabria e nel 1785, allorquando furono organizzate ed istituite le scuole nautiche con decreto di Ferdinando IV (e per l’insistenza di tale Giuseppe Valletta), i bastimenti erano diventati oltre 170. Immaginando che in media un equipaggio imbarcato per nave variava da un minimo di circa 10 uomini ( sui bastimenti più piccoli) fino ad un massimo ci circa 20-25 uomini ( in qualche caso anche oltre se i bastimenti erano impegnati in viaggi con destinazione Americhe o Nord Europa,rotte già praticate fin dalla prima metà del ‘700) si perverrà alla constatazione che, su una popolazione totale di 13.000 unità, così censita nel 1734 (tale risulta da un documento denominato “Summarium”conservato nell’archivio della Basilica di S. Michele), alla navigazione erano dediti (tra imbarcati ed in momentaneo riposo) non meno 3-4.000 uomini. Altre centinaia di unità includendovi maestri d’ascia, operai, falegnami, calafati, tessitori di vele ecc… erano occupate nelle attività connesse alla costruzione dei bastimenti sugli scali di Cassano ed Alimuri.

Ho verificato che almeno nel ‘700 erano maggiormente coinvolti nell’amministrazione della Cappella i Maresca che, in qualche caso, si inducevano a litigare fra loro per la nomina del Rettore al quale , in buona sostanza, era demandata l’amministrazione del patrimonio annesso alla cappella di S. Giovanni Battista. Il che è quanto si verificò anche nell’anno 1754 allorquando uno dei Maresca, il Capitano Ignazio Maresca, si fece rilasciare dagli altri compatroni una procura ad agire utilizzandola ,poi, per fare guerra al Rettore, tale Don Arcangelo Maresca dimorante, come affiora dal catasto onciario del 1754, nella città di Napoli e per tal motivo inserito nell’elenco dei bonatenenti, ovvero dei soggetti che, pur avendo beni in loco, non vi dimoravano. Don Arcangelo, probabilmente del ramo dei Duchi di Serracapriola, era uomo di chiesa ma molto facoltoso, tanto da possedere beni nella città di Napoli e nel Piano di Sorrento, soprattutto nell’area di Pontemaggiore (corrispondente alla attuale via C. Colombo a Meta intorno alla cappella erettavi nel XV secolo) e intorno alla Real Insigne Collegiata di S. Michele (tale eretta con provvedimento del vescovo di Sorrento Mons. Attanasio nel 1726). Don Arcangelo non ebbe difficoltà a convocare il 19 marzo del 1754 il capitano Giovan Battista Maresca (quondam Ignatio), il capitano Michele Maresca (questi, appartenente al ramo Maresca denominato “Mangiagalline”, era figlio di un noto capitano Pietro Antonio, al quale Re Carlo aveva concesso per servizi resi alla Corona, con decreto reale del 18 febbraio 1737, privilegi. Il Cap. Maresca sarà nominato nel 1799 Tesoriere Generale del più importante dei Banchi Napoletani, il S. Giacomo e Vittoria), Michele Maresca di Domenico, Gennaro Maresca di Biagio e Mattia Maresca di Biagio inducendoli a revocare la procura rilasciata in precedenza al capitano Ignazio e facendosi ,così ,confermare quale Rettore di S. Giovanni.

E’ indubbio che i rioni di S. Giovanni, Cassano, Gottola e Bagnulo costituissero nei secoli XVI, XVII e XVIII il cuore pulsante del Piano di Sorrento dove si concentravano tutte le attività marinare (Il vico di S. Giovanni era conosciuto come Corso dei Capitani ma su un lato vi erano le residenze di molti mastri calafati). Alla Cappella apparteneva fin dal medioevo un cospicuo patrimonio fatto di edifici, fondi rustici ed altro.
Proprio su uno di questi terreni, poco distante dall’edificio religioso , fu eretto nel ‘700, da quei Maresca che, nel 1730, con Nicola, conseguirono il titolo di Duca e nel 1735 il feudo di Serracapriola il palazzo oggi conosciuto come “Sopramare”. In precedenza questa famiglia Maresca plausibilmente dimorava in un altro palazzo che potrebbe corrispondere a quello che, già posto ad angolo tra il vicoletto S. Giovanni e via Cassano, andò distrutto con il sisma del 23.11.1980. Li viveva Leonardo Andrea Maresca che fu nonno di Nicola, il primo Duca, e bisnonno di Antonino.
Particolarmente rilevante la carriera politica di Antonino nominato, nel 1782, da Ferdinando IV ministro plenipotenziario in Russia alla Corte di Caterina II e, dopo aver sposato in seconde nozze una russa, la principessa Anna Viazemskii, svolse lo stesso incarico anche con il successore (di Caterina), lo zar Paolo, finendo i suoi giorni nel 1822 nella città di S. Petroburgo

Ma il palazzo di Sopramare fu teatro di un episodio rilevante al crepuscolo del Regno delle Due Sicilie. Il Principe Carlo Filangieri, già ufficiale di cavalleria al servizio di Napoleone e, dopo la restaurazione nell’entourage borbonico tanto da essere incaricato da Ferdinando II a comandare le truppe napoletane impegnate nel 1848 nella riconquista di Messina ( dopo i noti moti del 48’) e successivamente dell’intera Sicilia, a pochi giorni dallo sbarco a Marsala di Garibaldi, il 14 maggio 1860 si ritirò a vita privata a Piano di Sorrento dove fu ospite del Duca Maresca di Serracapriola proprio nel palazzo posto sulla Ripa di Cassano. Fu qui che, nel giugno del 1860, ebbe la visita di Francesco II che, proveniente in barca a vapore da Napoli, lo raggiunse per convincerlo, ma invano, ad assumere la Direzione del Governo ( Filangieri aveva già ricoperto l’incarico dal 1859 al 1860)

Le cose, com’è noto, ebbero tutt’altro epilogo e il sud fu annesso al costituendo Regno d’Italia.

Eccoci giunti, dopo alterne vicende, alla fine delle storia del patronato dei Maresca e dei Cota.
L’ultimo capitolo del patronato di S. Giovanni fu scritto quasi un secolo fa, il 27 novembre 1927, innanzi al Notaio Aniello Paturzo dove Don Saverio Cota, i germani Mons. Michele Maresca (parroco di Piano di Sorrento) ed avv. Luigi Maresca fu Tommaso, i germani Antonino, Federico ed Anna Maresca fu Pietro (Pietro Maresca, un “Mangiagalline”, fu notaio dal 1870 prima in Sorrento e poi in Pano di Sorrento fino al 1903) nonché Donna Letizia Castellano (quest’ultima figlia dell’armatore Mariano Castellano e vedova del Notaio Pietro Maresca) donarono il residuo patrimonio annesso alla Cappella di S. Giovanni alla Chiesa di S. Michele rappresentata nell’occasione dal Cav. Manfredi Fasulo.
Si chiudeva così una vicenda che era iniziata la bellezza di 7 secoli prima con quel decreto emesso dalla Curia il 21 febbraio 1231.

Francesco Saverio Esposito

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