Il canto del Miserere e i riti della Settimana Santa illustrati da Raffaele Lauro

Il Sen. Raffaele Lauro ha presentato il libro di don Francesco Saverio Casa e Giovanni Petagna dedicato al Miserere e alle celebrazioni pasquali. Pubblichiamo il suo intervento che racconta anche la suggestione dei riti dela settimana santa in Penisola Sorrentina. “Nel concludere questo intenso ed emozionante incontro sul bel libro di don Francesco Saverio Casa e di Giovanni Petagna, desidero, da subito, esprimere un sentimento di gratitudine, con la mente e con il cuore, al Priore, Antonino Persico, a tutti i Confratelli e, in particolare, agli amici Diodato Morvillo e Pasquale Ferraiuolo, per aver consentito di organizzare, in questo tempio di fede e di bellezza, una presentazione, che per il tema trattato, il Canto del Miserere, non poteva avere altro luogo che questo, che è la sintesi più alta del patrimonio religioso, storico, civile ed anche estetico, della nostra amata città di Sorrento. Aggiungerò poche riflessioni sul rapporto tra religiosità e pietà popolare, nei riti della Settimana Santa, a Sorrento e nella Penisola Sorrentina, in considerazione dei preziosi, interessanti e colti interventi degli illustri relatori che mi hanno preceduto: il coordinatore, Diodato Morvillo; il Priore, Antonino Persico; il Sindaco, Giuseppe Cuomo; il coautore, don Francesco Saverio Casa; il Direttore Diocesano dell’Ufficio Confraternite, don Antonino Minieri e il collega professor Vincenzo Russo, che ci ha donato un’altra prova della sua straordinaria preparazione scientifica e della sua elevata sensibilità culturale verso la storia della nostra terra. La religiosità popolare, come si invera nei riti della Settimana Santa a Sorrento e in Penisola Sorrentina, rappresenta una lente di ingrandimento che permette di meglio vedere e misurare alcune dimensioni della fede cristiana. La fede cristiana è un fatto relazionale: il donarsi di Dio a noi che suscita una risposta libera. Entrambi i poli sono essenziali, quello di Dio che chiama, e quello dell’uomo chiamato che risponde. I teologi preferiscono dare evidenza all’iniziativa di Dio. È il polo primario e il più facile da definire. Ma può anche risultare il più astratto e generico. Esso lascia in ombra l’articolarsi della fede nei soggetti, in ciascuna persona, nei luoghi e nei riti, che si stratificano nelle diverse culture. La religiosità popolare, invece, sottolinea maggiormente le esigenze dell’implicazione soggettiva, le dimensioni personali della fede e ci mette in gioco in prima persona, con le nostre scelte, con le nostre cadute e con le nostre attese dell’assoluto. Nel suo bisogno di concretezza, la religiosità popolare dà molto risalto alla tangibilità degli effetti di Dio nella storia. Essa vuole “vedere” Dio, sperimentarne l’agire salvifico. La teologia, da parte sua, approfondisce il riferimento agli eventi generatori della fede, quelli conclusi, una volta per tutte, nella Rivelazione di Dio in Cristo Gesù.  La religiosità popolare, quindi, vive una fede che si trova a suo agio con la convinzione che Dio sia tuttora, e sempre, all’opera nella storia, non solo in quella “grande”, ma nella “piccola storia” di ogni vita, di ogni esistenza umana e, nel nostro caso, di coloro che partecipano alla processione del Cristo Morto, come incappucciati, di quelli che, nel coro, cantano il Miserere e di quanti, non tutti purtroppo, assistono, come spettatori, allo sfilare della processione tra le strade di Sorrento. La religiosità popolare rivendica un’esistenza tutta intera coinvolta nella fede e il bisogno che essa interessi tutta la corporeità, l’affettività e la stessa emozione, come avviene nella sera del Venerdì Santo, in quella unità di sentimento religioso, di devozione e di radicamento dei condivisi valori della comunità, che esprime l’anima vera, autentica e più nobile della nostra città. Questa definizione della religiosità popolare nell’orizzonte della teologia fondamentale, ci invita a non dimenticare, nel discernimento sulle forme di fede cristiana, che ogni atto autenticamente religioso o di fede, per quanto imperfetto, tende ad un “agere” che è anche un “pati”, un agire, ma per ricevere. Il sospetto nei riguardi della religiosità popolare, come forma di agire utilitaristico se non magico (che oscura la trascendenza di Dio e ne fa una proiezione dei propri bisogni) dovrebbe essere verificato a partire dalla considerazione che l’agire religioso popolare ha, spesso, pur nei suoi limiti e nelle sue contaminazioni, il significato di un fare per essere “agiti” da Dio.

Ecco perché un aspetto essenziale per la valutazione della religiosità popolare trova il suo baricentro nella Pasqua di morte e di risurrezione del Signore. Ed il Venerdì Santo costituisce lo snodo di questa sofferenza, di questo patire, di questo essere insieme, perché il popolo si riconosce nel Gesù della passione, nel Gesù sofferente, nel Gesù morto in croce, nel Gesù deposto, immagine e riscatto della nostra unica possibilità di salvezza. Per tale ragione la passione di Gesù ha sviluppato la maggior parte delle devozioni proprie della religiosità popolare: le vesti degli incappucciati, i segni dei martiri, le croci e, infine, le statue del Cristo Morto e dell’Addolorata, diventano strumento di intense emozioni. Non a caso la sofferenza del Cristo viene associata sempre alla sofferenza della Madre, che vive la tragicità della morte del Figlio. Così avviene che il popolo, nel nostro caso il popolo sorrentino, si identifica, da centinaia di anni, col dolore del Cristo, vivendo quello della Madre, che in fondo è il dolore di ogni donna. È alquanto semplice, naturalmente, riconoscere i limiti di questa “cristologia popolare”: senza la risurrezione, la fede perde il suo dinamismo e porta ad un atteggiamento passivo della vita. In una logica di
imitazione passiva, la fede non manifesta la sua forza ultima di liberazione. Nello stesso tempo, occorre ricordare che Cristo Risorto è sempre il Crocifisso e porta i segni della sua passione nelle mani e nel costato. Per tale ragione, Paolo VI nella enciclica “Evangelii Nuntiandi” preferì, a quella di religiosità popolare, l’espressione di pietà popolare, perché in un rapporto più diretto con la liturgia.  La liturgia esprime e mantiene ciò che è centrale nella vita cristiana. Evidenzia, celebrandolo, il fondamento sorgivo della fede: il mistero pasquale. La pietà popolare, quindi, cerca di esprimere la fede all’interno delle varie circostanze concrete della vita e attraverso i sentimenti che esse suscitano. Il mistero di Cristo che la liturgia celebra, infatti, eccede ogni espressione. Esso irradia di luce tutti i frammenti della vita umana, nelle esperienze personali e comunitarie, come quella della processione del Cristo Morto. La pietà popolare non ha un contenuto diverso dalla liturgia: è sempre il mistero pasquale, ma cercato nei suoi effetti salvifici dentro l’orizzonte quotidiano. La pietà popolare invita la liturgia a recuperare tutta la dimensione affettiva del celebrare, vale a dire di far sperimentare il sentimento di essere “affetti” da Dio, raggiunti perennemente dalla grazia. La liturgia, di contro, non celebra le emozioni, ma il mistero pasquale che ci “emoziona” e in questo modo essa educa la pietà popolare a non ridursi a un effimero spettacolo, magari per i turisti, privo di contenuto partecipe, come ha sottolineato don Antonino Minieri, nella prefazione.

Il senso di identificazione nelle sofferenze della passione di Cristo e il continuo bisogno di espiare i peccati, per i quali l’Agnello di Dio si è immolato sulla croce, salvando così l’umanità intera, trovano, nella dimensione della pietà popolare, la loro massima espressione nel Miserere. Il Miserere è il canto nel quale la pietà popolare viene esaltata nel suo massimo grado. Il Miserere è una delle preghiere più recitate e famose del Cristianesimo. Il suo testo è quello di un salmo (Salmo 51), stilisticamente inferiore ad altri più belli del Libro dei Salmi, che, secondo la tradizione, fu scritto dal re Davide, come pentimento per una colpa di natura carnale, commessa con Betsabea, la moglie di un ufficiale dell’esercito. Il Miserere esprime, quindi, il senso di colpa e la richiesta di perdono. Quello che colpisce immediatamente nella trama degli avvenimenti che precedono e motivano questa composizione penitenziale, è che la trasgressione sembra essere la via maestra per raggiungere se stessi e Dio. L’unica vera colpa sarebbe non rendersene conto: ecco la funzione coscienziale del profeta  Natan, che illumina la mente di Davide. Dopo che il profeta ha aperto gli occhi a Davide, la richiesta di perdono del re appare come la volontà di legittimare e di integrare il nuovo che ha acquisito, come un appello alla misericordia di Dio, per sancire l’ammissibilità dei propri desideri, anche quelli più inopportuni. Davide prega di essere lavato dalle scorie del propellente che è servito a compiere l’indegno gesto, ma non lo rinnega, poiché talvolta si deve essere indegni, per riuscire a vivere pienamente. Dal proseguimento dell’amore di Davide per Betsabea nascerà il futuro re d’Israele, Salomone, colui che diventerà l’emblema del retto agire e del giusto decidere.  La preghiera di Davide, come hanno dimostrato sagacemente gli autori di questo prezioso volume, Francesco Saverio e Giovanni, coincide con la nostra stessa richiesta, dolorosamente colpevole, di essere accettati con comprensione per ciò che siamo e per quello che siamo costretti a fare per non tradire noi stessi. Il pentimento è la consapevolezza della inevitabile ambivalenza dell’agire umano, ma è pur sempre, secondo un’espressione di Nietzsche, un “dire sì alla vita”.  Il compito della fede, in conclusione, è quello di assumere il dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza, messi in movimento dalla contrizione, e di trasformare questi in coscienza della responsabilità davanti a Dio.

Per ogni cristiano Dio è non soltanto creatore, ma è anche colui che ci ha redenti in Cristo, con quell’amore che Cristo stesso ha modellato su Dio Padre. La redenzione compiuta da Cristo nella sua Pasqua e liberamente accolta dal credente nel sacramento del mistero pasquale e vissuta come fedeltà di alleanza contratta nel sacramento del battesimo, determina, per l’uomo, perdono e liberazione dal peccato. Ma anche dono della vita di Dio attraverso lo Spirito, che comporta l’essere figli nel Figlio in comunione con il Padre, per sempre.  Il peccato non offende né denigra Dio, bensì intacca l’essere dell’uomo, poiché, essendo infedeltà a quell’alleanza fondata in Cristo e già accolta nella fede, costituisce un disprezzo dell’amore di Dio e del dono di se stesso. Gli eventi, in quanto azioni storico-salvifiche, compiute da Cristo, sono tutti incentrati nel compimento della Pasqua: passione, morte, risurrezione, ascensione al Padre. Agendo simbolicamente, il rito liturgico ne fa il memoriale in quanto momento significativo, rivelato dalla Parola, e in quanto momento attuativo, come presenza incorporata nel simbolo della realtà rivelata significativamente. In tal modo si attua la liturgia sacramentale che postula l’azione della Chiesa. In essa, l’azione credente del soggetto interpellato e agente simbolicamente nel rito, la cui partecipazione è condivisione, diventa necessaria all’attuazione piena del sacramento. Rinnovo i miei ringraziamenti al Priore per questa ospitalità, nel luogo più caro alla fede cristiana dei sorrentini, e a tutti voi per la vostra attenta partecipazione. Questi riti, i nostri riti della Settimana Santa, costituiscono le nostre radici, il nostro DNA spirituale, che dobbiamo difendere, custodire e consapevolmente praticare, se, oltre alla salvezza oltremondana, aspiriamo a salvaguardare, per le future generazioni, la nostra identità religiosa e civile, dalle tempeste che si addensano sul nostro orizzonte. Pregiudicare queste radici significherebbe pregiudicare l’identità stessa del popolo sorrentino!  L’ascolto del canto del Miserere, nella versione indimenticabile ed insuperata del Maestro Ambrosini, rappresenta la degna conclusione di questo incontro, così soffuso di grazia e così pregno di consapevolezza comune sulla nostra indeclinabile ed insostituibile  dimensione spirituale, come singoli e come comunità.

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